Il gatto e il poliziotto

Da qualche tempo erano cominciati nella città i rastrellamenti delle armi nascoste. I poliziotti montavano sulle camionette con in testa i caschi di cuoio che davano loro fisionomie uniformi e disumane, e via per i quartieri poveri a suon di sirena verso qualche casa di manovale o d’operaio, a scompigliare biancheria nei cassettoni e a smontar tubi di stufe. Una struggente angoscia s’impadroniva in quei giorni dell’animo dell’agente Baravino.

Baravino era un disoccupato che da poco tempo s’era arruolato nella polizia. Da poco tempo quindi egli aveva saputo d’un segreto che esisteva in fondo a quella città apparentemente placida e operosa: dietro le mura di cemento che s’allineavano lungo le vie, in recinti appartati, in scantinati oscuri, una foresta d’armi lucide e minacciose giaceva guardinga come aculei d’istrice. Si parlava di giacimenti di mitragliatrici, di miniere sotterranee di proiettili; c’era, si diceva, chi dietro una porta murata teneva un cannone intero in una stanza. Come tracce metallifere che indicano l’approssimarsi d’una regione mineraria, nelle case della città si riscontravano pistole cucite dentro i materassi, fucili inchiodati sotto gli impiantiti. L’agente Baravino si sentiva a disagio in mezzo alla sua gente; ogni tombino, ogni catasta di rottami gli sembrava custodisse incomprensibili minacce; spesso pensava al cannone nascosto e gli accadeva d’immaginarlo nel salotto buono dov’era entrato una volta da bambino, nella casa dove sua madre faceva i servizi: una di quelle stanze che rimangono chiuse anni ed anni. Vedeva il cannone tra i divani di velluto stinto guerniti di pizzo, con le ruote fangose sul tappeto e l’affusto che toccava il lampadario; grande che riempiva tutto il salotto e scorticava la vernice al pianoforte.

Una sera la polizia fece una corsa nei quartieri operai e circondò tutta una casa. Era un grande edificio dall’aria sfatta, come se il sostenere tanta umanità assiepata ne avesse deformato i piani e i muri, avesse ridotto anch’essi ad una vecchia carne porosa, callosa ed incrostata.

Intorno al cortile ingombro di barili d’immondizie correvano a ogni piano le ringhiere dei ballatoi di ferro rugginose e storte; ed a queste ringhiere, e a spaghi tirati dall’una all’altra, panni appesi e stracci, e lungo i ballatoi porte-finestre con legni al posto di vetri, traversati dai neri tubi delle stufe, e al termine dei ballatoi, uno sopra l’altro come in scrostate torri, le baracche dei cessi, tutto così un piano sopra l’altro, intervallati dalle finestrelle dei mezzanini rumorose di macchine da cucire e vaporose di minestra, fino in cima, alle inferriate delle soffitte, alle gronde sbilenche, ai cenciosi abbaini aperti come forni.

Un labirinto di logore scale traversava dalle cantine al tetto il corpo della vecchia casa, come nere vene dalle ramificazioni innumerevoli, e sulle scale, sparpagliate come a caso, s’aprivano le porte dei mezzanini e dei promiscui appartamenti. Gli agenti salivano senza riuscire a cambiare il suono lugubre dei propri passi, e cercavano di decifrare i nomi segnati sulle porte, e giravano giravano in fila indiana per quei sonanti ballatoi, tra un far capolino di bambini e donne spettinate.

Baravino era in mezzo a loro, indistinguibile da loro sotto il casco di automa che gettava una cruda ombra sui suoi nuvolosi occhi celesti; ma il suo animo era in preda a confusi turbamenti. Dei loro nemici, gli era stato detto, nemici di loro poliziotti e gente d’ordine, si nascondevano dentro quella casa. L’agente Baravino guardava con sgomento dagli usci socchiusi nelle stanze: in ogni armadio, dietro qualsiasi stipite potevano celarsi armi terribili; perché ogni inquilino, ogni donnetta li guardava con pena mista ad ansia? Se qualcuno tra loro era il nemico, perché non avrebbero potuto esserlo tutti? Dietro i muri delle scale le immondizie buttate nei condotti verticali cadevano con tonfi; non potevano essere le armi di cui ci s’affrettava a sbarazzarsi?

Scesero in una stanza bassa, dove una famigliola stava cenando a un desco a quadrettoni rossi. I bambini gridarono. Solo il più piccolo, che mangiava sulle ginocchia del babbo, li guardò zitto, con occhi neri e ostili. - Ordine di perquisire la casa, - disse il brigadiere accennando un attenti e facendo sobbalzare i cordoncini colorati sul suo petto. - Madonna! A noi povera gente! A noi onesti tutta la vita! - disse una donna anziana, con le mani al cuore. Il babbo era in maglietta, una faccia larga e chiara, punteggiata di barba dura a radere; imboccava il piccino a cucchiaiate. Prima li guardò con un’occhiata traversa e forse ironica; poi scrollò le spalle e badò al bimbo.

La stanza era piena di poliziotti che non ci si poteva rigirare. Il brigadiere dava ordini inutili e impicciava invece di dirigere. Con sgomento Baravino guardava ogni mobile, ogni stipo. Quell’uomo in maglietta, ecco, era il nemico: e certo se non l’era stato fino a quel momento, ormai lo era diventato, irreparabilmente, a vedersi rovesciare i cassetti e sradicare dai muri i quadri delle madonne e dei parenti morti. E se era loro nemico, ecco, la sua casa era piena d’insidie: nel canterano ogni cassetto poteva contenere mitragliatrici smontate tutte in ordine; se apriva gli sportelli della credenza baionette inastate di fucili potevano puntarglisi sul petto; sotto le giacche appese nell’attaccapanni forse penzolavano nastri di proiettili dorati; ogni casseruola, ogni tegame covava una guardinga bomba a mano.

Baravino muoveva impacciato le lunghe esili braccia. Tintinnò un cassetto: pugnali? No: posate. Rimbombò una cartella: bombe? Libri. La camera da letto era ingombra da non potersi attraversare: due letti matrimoniali, tre brandine, due pagliericci abbandonati in terra. E, all’altro estremo della stanza, seduto in un lettino, c’era un bambino con il mal di denti che si mise a piangere. L’agente già voleva aprirsi un varco tra quei letti per rassicurarlo; ma se fosse stato poi di sentinella a un arsenale mascherato, se sotto a ogni giaciglio fosse nascosto un fusto di mortaio?

Gira gira, Baravino non frugava in nessun posto. Provò a aprire una porta: resisteva. Forse il cannone! Se l’immaginava nel salotto buono di quella casa del suo paese, con un vaso di rose artificiali che spuntava dalla bocca da fuoco, un passamano di pizzo sugli scudi, e statuine di ceramica posate con innocenza sui congegni. La porta cedé a un tratto: non era un salotto ma un ripostiglio, con sedie spagliate e casse. Tutta dinamite? Ecco! Per terra Baravino vide il segno di due ruote; qualcosa a ruote era stato trainato fuori dalla stanza via per uno stretto corridoio. Baravino seguì l’orma. Era il nonno che spingeva via la carrozzella più presto che poteva. Perché scappava quel vecchietto? Forse quella coperta sulle gambe gli serviva per nascondere un’accetta! Io gli passo vicino e il vecchio mi spacca in due la testa con un colpo! Andava al gabinetto, invece. Che fosse là il segreto? Baravino corse sul ballatoio ma s’aperse la porta del gabbiotto, e ne uscì una bambina con un fiocco rosso e un gatto tra le braccia.

Baravino pensò che doveva farsi amici i bambini, e far loro domande. Avanzò una mano per carezzare il gatto. - Bello, micio, - disse. Il gatto scattò via quasi contro di lui; era un gatto grigio e magro, di pelo corto e tutto tendini. Digrignava i denti e si muoveva a balzi come un cane. - Bello, micio, provò ad accarezzarlo Baravino, come se il problema per lui fosse tutto nel farsi amico di quel gatto. Ma il gatto scartò obliquo, e fuggì ogni tanto girandosi con malevole occhiate.

Baravino spiccava balzi per il ballatoio, rincorrendolo. - Micio, bello, micio, - diceva. Entrò in una stanza dove due ragazze lavoravano chine alle macchine da cucire. Per terra c’erano mucchi di ritagli. - Armi? - chiese l’agente e sparpagliò le stoffe con il piede rimanendo impastoiato e drappeggiato di rosa e lilla. Le ragazze risero.

Girò un andito e una rampa di scale; il gatto pareva alle volte lo aspettasse, poi quando s’era fatto più vicino saltava via a zampe pari e rigide. Uscì su un altro ballatoio: era ostruito da una bicicletta a ruote all’aria; un omino in tuta cercava un buco in un pneumatico immergendolo in un catino d’acqua. Il gatto era già dall’altra parte. - Permesso, fece l’agente. - C’è, - disse l’omino, e l’invitò a guardare: dalla gomma nell’acqua si levavano mille bollicine. - Permesso? - Che fosse stato tutto preparato per sbarrargli la via, o per buttarlo giù dalla ringhiera?

Passò. In una stanza c’era solo una branda e un giovanotto supino a torso nudo che fumava con le mani sotto la testa riccia. Aria sospetta. - Scusi, ha visto un gatto? - Era una buona scusa per perquisire sotto il letto. Baravino allungò una mano e si prese una beccata. Saltò fuori una gallina, allevata in casa di nascosto nonostante i decreti del comune. Il giovanotto a torso nudo non aveva mosso ciglio: continuava a fumare coricato.

Traversato un pianerottolo l’agente si trovò nel laboratorio d’un occhialuto cappellaio. - Perquisire... ordine... - disse Baravino e una pila di cappelli: lobbie, pagliette, tube, cadde e si sparpagliò sul pavimento. Il gatto saltò fuori da una tenda, giocò rapidamente coi cappelli e fuggì via. Baravino non sapeva più se ce l’aveva con quel gatto o se voleva solo diventargli amico.

In mezzo a una cucina c’era un vecchietto col berretto da postino e i calzoni rimboccati che faceva il bagno ai piedi. Appena visto l’agente, sogghignando gli fece cenno verso un’altra stanza. Baravino s’affacciò. - Aiuto, - gridò una grassa signora quasi nuda. Baravino, pudico, disse: - Scusi -. Il postino sogghignava, le mani sui ginocchi. Baravino riattraversò la cucina e andò in terrazzo.

Il terrazzo era tutto pavesato di panni stesi ad asciugare. L’agente camminava tra corridoi ciechi e bianchi, in un labirinto di lenzuola; il gatto ogni tanto appariva strisciando sotto un lembo e scompariva appiattito sotto un altro. A Baravino prese a un tratto il timore d’essersi perduto; forse era rimasto tagliato fuori, i suoi commilitoni avevano sgombrato l’edificio, e lui era prigioniero di quella gente giustamente offesa, prigioniero di quei bianchi panni stesi. Trovò un varco, alla fine, e riuscì ad affacciarsi ad un muretto. Sotto, s’apriva il pozzo del cortile con le luci che cominciavano ad accendersi intorno ai ballatoi di ferro. E lungo le ringhiere, su e giù per le scale, Baravino vide, non sapeva se con sollievo od ansia, il formicolio dei poliziotti e sentiva i comandi, i gridi di spavento, le proteste.

Il gatto s’era seduto sul muretto al suo fianco e muoveva la coda guardando in giù con aria indifferente. Ma quando lui si mosse saltò via: una scaletta portava a un abbaino, e il gatto vi sparì. L’agente lo seguì: non aveva più paura. L’abbaino era quasi vuoto: fuori la luna cominciava a prender lucentezza sulle nere case. Baravino s’era tolto il casco: il suo viso era tornato umano, esile viso di ragazzo biondo.

- Non un passo di più, - disse una voce, - sei sotto il tiro della mia pistola.

Sullo scalino della grande finestra c’era accoccolata una ragazza coi capelli lunghi sulle spalle, dipinta, con le calze di seta e senza scarpe, che con voce raffreddata compitava alle ultime luci della sera su di un giornale tutto fatto di figure e di poche frasi in stampatello.

- Pistola? - disse Baravino e le prese un polso come per aprirle il pugno. Appena lei mosse il braccio il golfino le si aprì sul petto e il gatto raggomitolato a palla ne saltò fuori in aria, contro di lui, agente Baravino, digrignando i denti. Ma l’agente capì ch’era ormai un gioco.

Fuggì sui tetti, il gatto, e Baravino affacciato alla bassa ringhiera lo contemplava mentre correva libero e sicuro sulle tegole.

- E Mary vide presso il suo letto, - continuava a leggere la ragazza, - il baronetto in frac con l’arma puntata.

Intorno s’accendevano le luci nelle case operaie alte e solitarie come torri. L’agente Baravino vedeva l’enorme città sotto di sé: costruzioni di ferro geometriche s’alzavano dentro i recinti delle fabbriche, rami di nuvole si muovevano sui fusti delle ciminiere traversando il cielo.

- Volete le mie perle, Sir Enrico? - compitava ostinata quella intasata voce. - No, voglio te, Mary.

A un alzarsi di vento Baravino vide contro di sé quella intricata distesa di cemento e ferro; da mille nascondigli l’istrice rialzava i suoi aculei. Era solo in terra nemica, ormai.

- Ho la ricchezza e l’eleganza, abito in un lussuoso palazzo, ho la servitù e gioielli, cosa posso chiedere di più dalla vita? - proseguiva la ragazza con i neri capelli che le piovevano sul foglio istoriato di donne serpigne e uomini dal lucido sorriso.

Baravino sentì il trillo dei fischietti e il rombo dei motori: la polizia abbandonava l’edificio. Avrebbe voluto fuggire sotto le catene di nuvole del cielo, seppellire la sua pistola in una grande buca scavata nella terra.

Ultimo viene il corvo
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